Arkadij e Boris Strugackij È DIFFICILE ESSERE UN DIO 1964
Il romanzo di fantascienza dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij è ambientato in un futuro in cui l'umanità ha raggiunto un livello di sviluppo avanzato. La storia si svolge su un pianeta distante, Arkanar, abitato da esseri umani con una società simile all'Europa medievale, bloccata in uno stadio di arretratezza culturale e sociale.
Don Rumata, il protagonista, è in realtà Anton, uno storico terrestre inviato come osservatore sul pianeta. Il suo compito è monitorare l'evoluzione della società senza interferire, seguendo il principio della non interferenza imposto dagli scienziati terrestri. Tuttavia, la sua posizione è estremamente ambigua: da una parte è venerato come una sorta di semidio per la sua forza e intelligenza superiori, dall'altra è tormentato dal divieto di migliorare attivamente le condizioni di vita del popolo.
Rumata vive a corte, in un ambiente corrotto e brutale, dove l'ignoranza e la violenza regnano incontrastate. La società è dominata da nobili spietati e da un regime oppressivo che perseguita i letterati e gli uomini di scienza, soffocando qualsiasi forma di progresso.
Il conflitto interiore di Rumata si intensifica quando assiste alla repressione del sapere e all'ingiustizia. Si trova a lottare con il dilemma morale di un essere superiore che potrebbe salvare il popolo, ma non può farlo per non alterare il corso naturale dello sviluppo storico. Il titolo stesso, È difficile essere un dio, si riferisce proprio al fardello di chi possiede il potere di cambiare il destino degli altri, ma è costretto a restare a guardare.
Con il solito stile effervescente e incontenibile vi appaiono temi come quello del rapporto tra Destino e libero arbitrio: Il romanzo esplora se sia giusto intervenire in una civiltà arretrata o se ogni società debba seguire il proprio corso naturale; quello del rapporto tra Potere e corruzione: La brutalità del potere e la repressione del sapere sono centrali, in una chiara metafora del totalitarismo sovietico che però bene può essere adattata al nostro tempo; e infine quello dell’Etica della conoscenza: La superiorità tecnologica e culturale pone infatti il protagonista in una posizione simile a quella di una divinità, ma la sua impotenza lo rende tragico.
Lo stile dei Strugackij è crudo, filosofico e profondamente esistenzialista. La narrazione oscilla tra azione, riflessioni interiori e descrizioni di un mondo claustrofobico e violento. Il romanzo è un'allegoria potente sull'arroganza del progresso e sulle responsabilità morali di chi possiede conoscenza e potere. La sofferenza di Don Rumata è quella di chi osserva il dolore del mondo senza potervi porre rimedio, in un ciclo eterno di oppressione e ignoranza.
Arkadij e Boris Strugackij L'ULTIMO CERCHIO DEL PARADISO 1965
In L’ultimo cerchio del paradiso ritroviamo lo stile inconfondibile dei due immaginosi fratelli russi. Il romanzo è del 1965 e ci proietta in una società capitalistica del prossimo futuro, dove la moneta corrente è il marco, il cibo e le bevande non si pagano ma la gente è travolta da una pericolosissima nuova droga, che spesso porta alla morte. Il protagonista Ivan Zilin è un investigatore incaricato appunto di fare luce sulla diffusione di tale pericolosa sostanza (ma poi scopriremo che non si tratta affatto di una “sostanza”).
Lo stile è centrato sui dialoghi piuttosto che sulle descrizioni, infatti è piuttosto complesso ricostruire la trama ma anche solo l’ambientazione della storia. Gli autori procedono non in linea retta, ma per spirali, per approssimazioni, attraverso una infinita galleria di personaggi di cui non si comprende esattamente il ruolo e la funzione narrativa: la prostituta, il barbone, il filosofo ottimista, il doganiere, l’autista, l’ubriaco, un cyborg uscito di senno ecc.
Il protagonista, in incognito, si presenta come “turista e uomo di lettere” ed è una definizione particolarmente azzeccata, perché la sua indagine ha piuttosto la forma di un girovagare piuttosto casuale che non quella di una costruzione razionale. Però la narrazione non ha mai un momento di riposo, sembra di assistere, per dirla in termini cinematografici, a un lunghissimo piano-sequenza che si snoda dalla prima all’ultima pagina.
Spiccano le scene della festa popolare chiamata “Brividi” dove la gente si stordisce per non pensare a niente, e quelle di terrorismo di cui sono responsabili gli “intel” (che sta per intellettuali) verso i quali tutti i personaggi esprimono una sincero sentimento di odio. Ma il cuore della narrazione probabilmente è la vicenda dello “slug”, la nuova droga che consiste in un apparecchio elettrostimolatore, spesso nascosto dentro una semplice radio, cui il soggetto si abbandona mettendosi dentro una vasca piena d’acqua. È una droga che dà rapida dipendenza ma rischia sempre di portare alla morte colui che ne fa uso. Si tratta forse di una metafora che allude alla pericolosità dei mass media nel mondo occidentale?
Certo gli autori sembrano impietosi nel descrivere una società, l’ultimo cerchio del paradiso, come suggerisce il titolo, di natura tipicamente capitalistica, dove il divertimento è soltanto un modo per annullare la facoltà del pensiero, gli intellettuali sono stigmatizzati, e i media rappresentano una forma di stordimento dell’intelligenza, ma soprattutto i rapporti tra le persone appaiono scomposti, sempre sospetti, mai trasparenti, mai sinceri.
Con la loro consueta ironia i fratelli Strugackij, tuttavia, lasciano aperta la possibilità di estendere al mondo sovietico – pare di intuire che il protagonista viene da un altro mondo, un altro pianeta – le loro sottili osservazioni critiche. Riporto in questo senso un’affermazione che la dice lunga: “Ti dirò soltanto una cosa: se nel nome di un ideale una persona è spinta a compiere atti meschini, allora questo ideale vale meno della merda…” (166), un modo piuttosto aspro per sottrarsi a una facile collocazione ed esprimere piuttosto una radicale presa di posizione che non risparmia affatto il mondo sovietico. Anzi, il finale contiene una doppia determinazione: da un alto infatti il protagonista si lamenta: “Era impossibile che lì non esistesse nessuno che si fosse schierato dalla nostra parte, nessuno che odiasse tutto questo di un odio mortale, che volesse far saltare per aria quel mondo stupido e con la pancia sempre piena”, ma dall’altro ammette: “Non sapevo ancora da dove cominciare, in quel Paese degli sciocchi colto di sorpresa dall’abbondanza, ma sapevo che non me ne sarei andato da lì finché me lo avrebbe consentito la legge sull’immigrazione. E quando non me l’avrebbe più consentito, l’avrei infranta…” (186).
Arkadij e Boris Strugackij LA CHIOCCIOLA SUL PENDIO 1971
Lo stile fantastico, immaginativo, parodistico e insieme acuto e profondo dei fratelli Strugackij, rappresenta un modello difficile da imitare di grande letteratura distopica, ma al contempo mostra con evidenza il legame con la grande letteratura russa, da Gogol a Bulgakov.
In questa opera, La chiocciola sul pendio si spalanca uno scenario magmatico e visionario.
Lo dice chiaramente Boris Strugackij nella Postfazione: Il mondo descritto in è “un mondo in divenire, un mondo che non aveva ancora terminato di formarsi, un mondo in costruzione” (p. 264), certo è un modello per il futuro, ma non è un modello chiuso, definito, come quelli descritti da Huxley o da Orwell, è un mondo che muta sotto gli occhi del lettore, che sfugge da tutte le parti. Per questo è impossibile l’operazione di sintetizzare una trama, possiamo solo indicare i due luoghi sui cui si articola la narrazione: il Direttorato, stanze, uffici, protocolli, gerarchie, che rappresenta il presente, e la Foresta che rappresenta invece il futuro. I protagonisti aspirano a visitare la Foresta, ma in essa si perdono continuamente, vorrebbero raggiungere una fantomatica Città di cui si dice, ma il percorso è fatto di paesi, di sentieri, di paludi e vi si incontrano morti viventi, animali sconosciuti, perversioni e disorientamento.
Il movimento lento e inesorabile, verso luoghi invisibili, e invivibili, appare quello di una chiocciola sul pendio, da cui il titolo, sforzo titanico verso una realizzazione (la società comunista? Il mondo senza classi e senza sfruttamentio?) che appare sempre più fumosa e inconsistente.
Certamente per il lettore russo degli anni ’60 cui risale la stesura, il testo doveva apparire intriso di simboli che a noi oggi appaiono parzialmente indecifrabili. Di sicuro esso appare dissacrante rispetto alle esigenze propagandistiche della letteratura di regime e il libro subì infatti la sorte di essere proibito e ignorato. Ma se il Direttorato e la Foresta sono la descrizione di un sogno andato a male, di un progetto e di un ideale che si è tradotto in un mondo oscuro, caotico, privo di autentica razionaliytà, privo di aspettative e di amore, noi lettori di oggi non possiamo fare a meno di notare come l’insegnamento dei fratelli Strugackij sia terribilmente attuale: “del Futuro - scrive ancora Boris Strugackij - l’unica cosa che sappiamo con un certo grado di sicurezza è che non coinciderà in nessun modo con qualunque idea possiamo avere di esso.”
Arkadij e Boris Strugatskij, PICNIC SUL CIGLIO DELLA STRADA, STALKER 1972
Molto opportunamente la casa editrice Mardos y Markos ha ripubblicato questo fondamentale romanzo dei fratelli Strugatskij in una versione tradotta da Paolo Nori e restaurata dalle numerosissime modifiche imposte dalla censura sovietica al tempo della prima edizione (1972). Per i numerosi appassionati lettori dei fantasiosi fratelli è l’occasione per rileggere un romanzo che è stato di ispirazione per un bellissimo film di Tarkovskij ed è forse il più conosciuto della loro vasta produzione.
Il protagonista è uno Stalker, cioè un avventuriero che con grande coraggio vive commerciando ciò che riesce a trovare nella Zona. Un territorio abbandonato e proibito che è stato visitato in passato dagli alieni che vi hanno lasciato una gran quantità di materiali e di oggetti misteriosi, miracolosi ma anche molto pericolosi. Gli alieni non ci sono più, sono scomparsi, cosa siano venuti a fare non si sa, l’ipotesi è che la Terra abbia rappresentato per loro solo un punto di passaggio in chissà quale viaggio, un luogo dove fare un picnic sul ciglio della strada, come dice il titolo. E ciò che si ritrova sarebbe nient’altro che gli avanzi, i resti di quel passaggio.
Red Schuhart detto il Rosso, protagonista del romanzo, sa muoversi in un territorio pieno di insidie e di trappole, ma sa anche che non si tratta solo di raccattare qualche strano oggetto, in verità la Zona nasconde segreti oscuri, può produrre trasformazioni inspiegabili, si parla di morti che possono rivivere, di esseri umani mutanti, ecc. Alcuni cercano di penetrarvi a caccia di tesori ma restano vittime di contaminazioni, di liquidi velenosi, di trappole gravitazionali e altre amenità.
Il Rosso, nonostante tutti i pericoli continua la sua caccia mosso esclusivamente da una aspirazione ben raccontata nella parte finale del romanzo, l’aspirazione alla felicità, la speranza che da qualche parte si nasconda il segreto della felicità: “Felicità per tutti, gratis, e che nessuno se ne vada scontento!” Sono queste le ultime parole del romanzo.
Lo stile dei fratelli Strugatskij è facilmente riconoscibile anche in questo romanzo, sovraccarico, denso, articolato intorno a numerosi personaggi e dilatato in un arco temporale assai lungo. Lunghe conversazioni talvolta prendono il posto delle sequenze narrative. Nel mondo degli Strugatskij bisogna entrarci, non si può pretendere la trasparenza assoluta, qui poi molti degli oggetti alieni non sono nemmeno descritti analiticamente, se ne accenna come se li dovessimo conoscere già, perché il lettore ideale non è un estraneo, ma è qualcuno che fin dalla prima pagina appartiene a quel mondo, ne fa parte.
Se poi volessimo cercare una traduzione metaforica, un sotterraneo riferimento alla realtà del loro tempo non sarebbe così difficile immaginare che il mondo alieno, pieno di cose straordinarie è, in fondo, il mondo capitalistico visto dall’altra parte, un mondo che contiene in sé tanto la promessa della felicità quanto un intricato sistema di pericoli mortali. C’è poco da fare, i fratelli Strugatskij erano avanti, molto avanti.
Arkadij e Boris Strugackij, LA CITTA' CONDANNATA 1980
Scritto negli anni ’70 e sepolto in un cassetto perché improponibile nella società del tempo e poi finalmente pubblicato alla fine degli anni ’80 quando le condizioni politiche in Unione Sovietica stavano cambiando radicalmente, La città condannata dei fratelli Strugackij è certamente un libro di lettura impegnativa perché denso e complesso, innegabilmente figlio della migliore tradizione narrativa russa, ma al contempo è uno di quei romanzi dal profilo epico capaci di costruire un altro mondo come fosse lì, reale, a portata di mano del lettore. La città cui allude il titolo è infatti un vero e proprio mondo altro, di cui si intuisce che forse non è nemmeno sulla terra, e che è nata da un Esperimento cui si allude continuamente, facile trasposizione di quella che l’ideologia dell’epoca indicava come il progetto del socialismo in un solo paese. Qui però vigono regole non sempre chiare e non sempre comprensibili. Una per esempio impone agli abitanti di cambiare mestiere periodicamente, e infatti il gruppo dei personaggi lo troviamo in ogni capitolo all’interno di una situazione diversa, prima sono netturbini, poi inquirenti, poi giornalisti, e si tratta di un gruppo assurdamente eterogeneo: il protagonista è Andrej russo emulo di Stalin, insieme a lui ci sono un giapponese, un cinese, un americano, un agricoltore russo, un ebreo, un nazista. Tutta la vicenda si snoda attraverso discussioni interminabili, e scambi densi di riferimenti politici e filosofici, in un clima di devastazione imminente, in cui le strade sono invase da scimpanzé sanguinari, e il sole è una lampada che si accende e si spegne un po’ a caso. Alla fine il gruppo è coinvolto in una esplorazione, fallimentare, dei limiti della città e dell’esistenza di una fantomatica Anticittà. Ma la ricerca si arena, i mezzi si guastano, il gruppo si spacca.
Il lettore è condotto a porsi continuamente domande sulla natura del potere, sulla condizione umana, sul destino del singolo e della collettività, sull’erosione del tempo, sulla decadenza dei valori, e ciò che appare più chiaramente è che non ci sono risposte da offrire, gli autori non hanno tesi da dimostrare, tutt’al più mostrano l’esigenza di fare i conti con l’impossibilità di imporre alcun ordine, e l’impossibilità di opporsi alla forza inesorabile del caos. Tutti gli attori di questa avventura ignorano lo scopo dell’Esperimento e quindi non sono mai in grado di stabilire se esso stia riuscendo o stia fallendo, ma sono incitati ad andare avanti da un Mentore personale che è la figura più enigmatica di tutto il romanzo, incrocio tra un burattinaio, un motivatore, una voce della coscienza.
Inutile negare che la sensazione finale per il lettore è di grande amarezza, come se davvero non ci fossero valori stabili, non ci fossero obiettivi da perseguire, come se davvero la nostra esistenza fosse quell’insieme di casualità e di insensatezza che da sempre cerchiamo di esorcizzare. Ma a leggere La città condannata, viene il dubbio, che le cose invece stiano proprio così.
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