I CLASSICI DEL XX SECOLO

 

I CLASSICI DEL XX SECOLO

 

 

Emilio Salgari   LE MERAVIGLIE DEL DUEMILA 1907

 Sicuramente chi volesse intraprendere quella storia della fantascienza italiana che ancora manca, dovrebbe passare con molta attenzione attraverso questo vecchio romanzo di Emilio Salgari, Le meraviglie del duemila, pubblicato per la prima volta nel 1907 ma scritto tra il 1902 e il 1905. L’autore è ben noto come scrittore per ragazzi, grande iniziatore del romanzo d’avventura ed esotico, pensiamo al ciclo di Sandokan, ai Pirati della Malesia ecc. Non c’è dubbio che in questo contesto di una scrittura commerciale attenta al favore del pubblico si inserisce anche la proposta fantascientifica di Salgari. È piuttosto evidente a qualsiasi lettore attento che Salgari ha ben presente le esperienze di poco precedenti di Wells in particolare, anche se le traduzioni italiane sono più o meno contemporanee.

Altrettanto certo è che la sapiente mano del narratore d’avventura si sente bene anche in questo romanzo di tipo piuttosto descrittivo, eppure coinvolgente e godibile per il lettore.

 La vicenda si snoda a partire da un protagonista, lo scienziato Toby Holker, che ha scoperto le straordinarie virtù di una pianta esotica, capace di indurre uno stato di morte apparente. Egli convince un amico, il nobile ricco e annoiato James Brandok, il quale disgustato ormai dall’esistenza e prossimo a farla finita sente di non aver nulla da perdere e quindi accetta il rischio dell’avventura che gli viene proposta. Bevono dunque la pozione  e vengono chiusi in una specie di sarcofago refrigerato dove resteranno per cento anni per essere poi risvegliati alle soglie del Duemila. In questo modo essi realizzano un vero e proprio viaggio nel tempo. Qui trovano la nuova società avanzatissima, dove si possono spostare servendosi di macchine volanti o di treni ad aria compressa, muovendosi rapidamente dall’America all’Europa, visitando grandi città, e anche città sottomarine. Domina su tutto la forza dell’elettricità, il vero sogno dell’uomo della fine dell’800 e dell’inizio del 900. Energia prodotta soprattutto dai grandi Mulini che sfruttano la Corrente del Golfo.

 I pranzi vengono serviti da una macchina; gli abitanti del futuro sono vegetariani non tanto per scelta ma per necessità, dal momento che tutti i terreni sono coltivati per permettere alla popolazione, aumentata molto nel tempo, di mangiare. Al contempo gli uomini hanno sostituito la carne con una pillola. Gli uomini del Duemila intrattengono positive relazioni con i marziani. Ogni famiglia ha una specie di comunicatore con il quale riceve tutte le notizie del giorno; le città sono pulite da macchine simili ad elefanti. 

Salgari, memore probabilmente dei fatti che hanno caratterizzato la fine dell’800, sogna un mondo liberato dal pericolo dell’anarchia, cioè dell’opposizione degli oppressi, perché infatti  gli anarchici sono confinati al polo nord dal momento che vengono ritenuti un reale pericolo per il mondo  e ora sono costretti a vivere li con le proprie mogli, mentre i figli vengono prelevati e mandati in Europa o in altri continenti a studiare e a rieducarsi. 

Il finale è meno ottimista dell'insieme della narrazione. I due protagonisti infatti soffrono sempre di più la nuova realtà e in particolare vengono travolti dall'energia diffusa nell'aria, nel terreno, in ogni luogo della nuove città del futuro. Fino ad esserne sconvolti e perdere il senno.

 Il romanzo, godibilissimo, risente chiaramente dei grandi modelli, già affermati al tempo, di Verne e H. G Wells, ma dimostra grande maestria nel costruire l’avventura, e non poteva essere diversamente. Certo, come tutta la fantascienza del secolo scorso, lascia in bocca un sapore d'antiquariato, le novità strabilianti allora attese e immaginate, sono state in gran parte superate dalla realtà di oggi, tranne forse per quell’uso esclusivo dell'energia pulita, qui rappresentata dall'elettricità, che resta un progetto irrealizzato del nostro tempo. Su questo siamo indietro e dobbiamo inseguire il sogno di uno scrittore del secolo scorso.
 

Jack London   IL TALLONE DI FERRO   1907

 Il romanzo di Jack London "Il tallone di Ferro" del 1907 è sicuramente il primo esempio di romanzo distopico che prova a immaginare lo sviluppo di una società industriale capitalistica. E vede l'acuirsi tragico delle contraddizioni fra ricchi e poveri, la violenza della classe dominante sulla classe lavoratrice. Memorabili restano le pagine in cui London da una prospettiva socialista racconta la disumana condizione dei lavoratori del suo tempo. Ma altrettanto emblematico il finale che vede l'affermarsi del Tallone di Ferro sulla Rivoluzione sociale. Pessimismo dell'immaginazione che vince sull'ottimismo dell'ideologia.

Non c'è dubbio che il filone della distopia di cui sarà maestro G. Orwell ha in queste pagine uno dei suoi prototipi.

 

 Jack London   LA PESTE SCARLATTA   1912

In questi tempi di pandemia è inevitabile per chi frequenta i territori della distopia ripensare alle tante opere letterarie e cinematografiche nelle quali il movente della tragedia  è appunto la diffusione dei un virus letale. Ma chi ha memoria e amore per i grandi classici dovrà per forza tornare a leggere La peste scarlatta (1912) di Jack London. Perché in quel breve romanzo London getta  le basi di un intero filone narrativo. 

Il romanzo in questione insieme a Il vagabondo delle stelle (1915) e Il tallone di ferro (1908), costituisce il trittico fantascientifico di Jack London, meno noto del suo filone di romanziere d’avventure, ma non per questo meno rilevante.

La peste scarlatta è un romanzo narrato, nel senso che le vicende sono riportate da un vecchio sopravvissuto alla strage portata dal virus della peste scarlatta, ai giovani nipoti di alcuni altri sopravvissuti. Dunque un libro di memoria in un ambiente post apocalittico, una California ricaduta in una condizione primordiale. Il protagonista, un vecchio professore, dopo anni di isolamento assoluto sente il bisogno di raccontare, di ricordare, di confrontarsi e lo fa i ragazzini ignari di tutto, bati in questo nuovo mondo che deve ripartire da capo senza sapere cosa è successo senza conoscere le grandi scoperte dell’uomo che ormai sono sparite dalla realtà e anche dalla memoria. Il romanzo propone un finale aperto dal quale si intuisce che il vecchio, lui uomo del passato,  forse ha ancora qualcosa da insegnare alle nuove generazioni, quelle che ricostruiranno l’avvenire dell’umanità.

La peste come strumento provvidenziale o punizione divina o comunque nemico più forte di qualsiasi essere umano e di fronte al quale l’umanità è costretta  a fare i conti con se stessa, è motivo che si potrebbe ripercorrere attraverso tutta la cultura occidentale, dall’Edipo di Sofocle allIliade, da  Boccaccio a Manzoni, dalla Mary Shelley de L’ultimo uomo al Defoe de La peste di Londra. A pieno titolo La peste scarlatta si inserisce su questa linea inserendovi però una nota tragica, negativa e  pessimistica.

Il romanzo è ambientato a sessant’anni di distanza dalla catastrofe avvenuta nel 2013 in una società dominata dal Consiglio dei magnati dell’industria, una espressione che richiama il profilo della società capitalistica disumana e approfittatrice che London ha sempre avversato. È colpa di questa società se la piaga ha dilagato in mezzo a violenza ed egoismo, invece di essere affrontata con spirito di solidarietà. Ma ormai il danno è fatto. Il genere umano deve ricominciare ma se non sarà in grado di ricordare ciò che accaduto il suo destino sarà segnato, essa sarà condannata a ripercorrere la stessa strada e si ritroverà nello stesso dramma: “Niente potrà impedirlo...la stessa vecchia storia si ripeterà. L’uomo si moltiplicherà e gli uomini si combatteranno. La polvere da sparo permetterà agli uomini di uccidere milioni di uomini, e solo a questo prezzo, con il fuoco e con il sangue, si svilupperà, un giorno ancora lontanissimo, una nuova civiltà. E a che pro? Come la vecchia civiltà si è estinta, così si estinguerà la nuova”. Difficile immaginare esortazione più attuale.

 

Robert Benson   IL PADRONE DEL MONDO   (1907)

Pur essendo una lettura piuttosto pesante per non dire noiosa, il quadro che dipinge Robert Benson in "Il padrone del mondo" (1907) è davvero straordinario. Egli racconta un mondo diviso tra gli Umanitaristio e i Cattolici, i primi hanno adottato una visione radicalmente laica del mondo e si adoperano per cancellare dal pianeta ogni traccia di religione. Adottando però una sorta di culto dell'umanità non privo di connotazioni spirituali e di ironiche imitazioni della retorica religiosa. Il contrasto tra i due mondi diventa guerra e persecuzione. Roma viene distrutta, i cristiani martirizzati, fino al finale apocalittico. Va detto però che l'autore, Benson, è un sacerdote e quindi legge tutta questa realtà distopica da una precisa prospettiva non priva di faziosità. Fatta la tara di questo particolare il libro resta meritevole di essere letto.

 

Alfred Kubin   L'ALTRA PARTE    1908

Alfred Kubin è noto come artista, illustratore e disegnatore boemo del primo Novecento. Espressionista e surrealista, la sua opera è caratterizzata per un tratto allucinato e inquietante, spesso grottesco. Ma è anche autore di un romanzo che appartierne di dirritto alla serie della letteratura Distopica, "L'altra parte" (1908). E' un'opera molto impegnativa, caratterizzata per una prima parte piuttosto faticosa, tipicamente ottocentesca, ispirata essenzialmente al modello del'Utopia, cioè dell'ipotesi di uno stato perfetto, dove regna felicità e benessere. Tuttavia è nella seconda parte che emergono prepotenti tutte le immaginazioni perverse dell'autore, ed è lì che il romanzo si fa capolavoro. Il Regno del Sogno infatti, rapidamente sembra disfarsi, essere travolto da follia, isteria, malattia, ogni cosa finisce per invecchiare rapidamente e distruggersi, così come i rapporti umani e le persone stesse: lotta, violenza, rivolta, l'intera società deperisce e si autodistrugge. E il Demiurgo creatore originario della società perfetta, mostra la sua vera faccia di ibrido di bene e di male, di gioia e di dolore, di creazione e di distruzione. Un finale davvero molto cupo, quanto tristemente attuale.

 

Evgenij Zamjatin    NOI   1920

 Risalendo alle origini della letteratura distopica incontriamo "Noi", capolavoro assoluto del russo Evgenij Zamjatin, opera che risale al 1920 anche se ha raggiunto la meritata fama solo molto più tardi. L'opera appartiene sicuramente a quel filone che ha provato a osservare il nostro mondo proiettandolo in un tempo futuro per saggiarne le svolte disumane che il tempo presente sembra già contenere in sè. Tradizionalmente quest'opera viene intesa come una critica del nascente mondo sovietico, ma come per altro accade anche alle opere più note di Orwell, si tratta di una lettura molto superficiale, in realtà il mondo ultra razionale descritto da Zamjatin, ove si cancella la diversità individuale e si modifica il corpo degli esseri umani per annullare in essi ogni forma di fantasia e ogni "anima" come scrive l'autore, in realtà più che al collettivismo sovietico che pure aveva in sé questo idea normalizzatrice e omologante, il romanzo rivolgere il suo focus polemico il mondo della tecnica, che va oltre le distinzioni est ovest, ma è il vero segreto dell'umanità moderna. E la forza che lasciata andare fuori controllo non potrà che portare l'uomo al disastro che Zamjatin anticipa benissimo. E che abbiamo già sotto gli occhi.

 

Karel Capek   LA GUERRA DELLE SALAMANDRE   1936

"La guerra delle salamandre" (1936) di Karel Capek è un romanzo abbastanza sorprendente, perché si presenta con una scrittura davvero molto moderna, che risente dell'epoca delle avanguardie europee, ma soprattutto perché affronta un tema davvero potente: l'emergere nel mondo di una nuova specie animale, le salamandre appunto, che passano progressivamente dallo stato animale quello di animale addomesticato, e poi di servo, o di lavoratore schiavo, e diventano poi specie che si ribella e pretende i propri spazi e i propri diritti. Il valore metaforico della narrazione è evidente, la formidabile potenza distopico critica è indicata dallo stesso autore nell'introduzione, laddove precisa che il suo romanzo: "Non è una speculazione sul futuro, bensì un riflesso di ciò che è, di ciò che ci circonda".

 

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