J. VERNE

 

 J. Verne,  VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA  1864

Scritto nel 1864 è il romanzo che inaugura il filone della letteratura fantastica cosiddetto del “mondo perduto”, si pensi ad esempio a La razza ventura (1871) di Edward Bulwer-Lytton, o Le miniere di re Salomone (1885) di H. Rider Haggard o ancora a Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle del 1912.

In questo caso il mondo perduto è l’interno della Terra, il mondo sotterraneo.

 La narrazione prende avvio dal ritrovamento di un antico manoscritto – un altro topos della letteratura fantastica – nel quale il protagonista, un grande geologo,  il prof. Lidenbrock, trova un’iscrizione in caratteri runici che riesce fortunosamente a decifrare. È la testimonianza di un antico viaggiatore che afferma di aver raggiunto il centro della Terra, e indica il punto da dove è possibile iniziare simile impresa: un vulcano spento in Islanda. Raggiunta l’isola un piccolo drappello composto dall’illustre studioso, dal nipote Axel e da Hans, un taciturno cacciatore islandese assunto come aiutante per l’occasione, seguendo la via del vulcano spento si addentra nel sottosuolo. Il piccolo Axel è anche la voce narrante che porta il lettore a una scoperta progressiva, tra momenti di entusiasmo e situazioni disperate.

Il mondo di sotto appare fin da subito al lettore come un altro mondo, per i lettori di fantascienza è come se si trattasse di un altro pianeta. Ogni cosa è una scoperta, formazioni minerali sconosciute, piante mai viste, funghi immensi, tracce di animali preistorici, ma anche animali estinti che rivivono. Fra le altre cose scoprono un cimitero d’ossa di animali preistorici ma anche tracce di uomini del Quaternario: un uomo fossile!

Rischiano più volte la vita ma non demordono, l’esplorazione è troppo importante. La sconoscenza vale il rischio. Fino a che, trascinati dalla forza di una eruzione sono gettati fuori dalla bocca di un vulcano che scoprono essere Stromboli.

Tornano alla fine ad Amburgo da eroi.

 Un romanzo carico di fascino, dove l’avventura si sposa alla fantasia e la descrizione del mondo inferiore si mescola con una specie di regressione nel tempo attraverso tutta la storia della Terra.

Dall’inizio alla fine il coraggioso scienziato non fa altro che dimostrare, per via di esperienza empirica diretta, la relatività delle certezze scientifiche, tanto poco solide da essere messe continuamente in discussione dalle scoperte del drappello di esploratori.

Verne, si sa appartiene ancora alla fase del positivismo, della certezza quasi fideistica nella scienza e nella sua capacità di dare spiegazione del mondo, ma allo stesso tempo dimostra un atteggiamento per niente ingenuo, ma anzi consapevole anche dei limiti che la scienza incontra sul suo cammino, e al contempo della presunzione di molti scienziati. 

 

Jules Verne, DALLA TERRA ALLA LUNA   1865

 Se cerchiamo il punto d’origine di quello che chiamiamo fantascienza dobbiamo arretrare al XIX secolo. Probabilmente il germe è da cercarsi nel Frankenstein di Mary Shelley, ma la consacrazione definitiva del genere è merito indiscusso di Jules Verne. Per questo rileggere oggi le sue opere è ancora una esperienza che merita la nostra fatica.

Di fronte al romanzo Dalla Terra alla Luna del 1865 per esempio, non possiamo non restare stupefatti: in realtà il romanzo dal punto di vista dell’intreccio narrativo è assai modesto, non accade quasi nulla. Buona parte del libro racconta con dovizia di particolari l’aspetto scientifico e tecnico di un progetto straordinario: mandare una capsula dalla Terra alla Luna. Il viaggio verso il nostro satellite ha da sempre affascinato scrittori e filosofi, dalla antica commedia greca (Aristofane o Luciano) passando per Dante, Ariosto, Keplero, Cyrano. Ma quello che distingue totalmente il romanzo di Verne è che esso pretende di fondarsi su dati scientifici. Non su semplici fantasie d’artista. È evidente lo studio che l’autore ha compiuto per analizzare la posizione esatta della Luna rispetto alla Terra, o la velocità necessaria per uscire dall’orbita terrestre, o la potenza del cannone che sparerà la capsula, ma anche le problematiche relative alla fusione del cannone o alla necessità di produrre ossigeno nella navicella, e assorbire anidride carbonica. Certo non sono sempre pagine facili, talvolta hanno un carattere didascalico e enciclopedico che le rende pesanti, ma non possiamo non meravigliarci di fronte alla capacità di Verne di affrontare questioni tanto complesse sulla base dei dati scientifici a sua disposizione in quel momento, e persino di suggerire soluzioni se non fattibili almeno verosimili.

 Tutto è ambientato negli USA e ruota intorno al Gun Club, una associazione di artiglieri che discute di canoni e di guerre, presenti e future. Il presidente Barbicane ha un’idea rivoluzionaria: lanciare un proiettile sulla luna. Lo scopo non è chiarissimo, forse per stabilire un contatto con i possibili abitanti, forse solo per mostrare le straordinarie capacità della tecnica. Insomma, una esibizione di potenza.

All’inizio il proiettile doveva essere solo una palla vuota, ma poi su suggerimento di un coraggioso francese, Michel Ardan, personaggio ispirato fin nel nome al celebre fotografo Nadar, grande amico di Verne, il proiettile diventa un vera e propria navicella, a bordo della quale saliranno Barbicane, Ardan e il capitano Nicholl, scienziato costruttore di corazze.

L’enorme cannone viene costruito, si sceglie il fulmicotone come carica esplosiva e dopo lunghe discussioni tecniche finalmente si spara il proiettile verso la Luna. Dalla Terra però non si riuscirà a seguirne il tragitto. Qui si chiude il romanzo, lasciando il lettore incerto sull’esito finale  del progetto.

La storia verrà ripresa e conclusa da Verne qualche anno dopo  nel seguito Intorno alla Luna (1870).

Come si accennava l’elemento più significativo del romanzo è la passione per la Scienza e la Tecnica che l’Autore riversa nelle sue pagine, anche a costo di sottoporci ad articolate spiegazioni intorno al calcoli dell’orbita, alla fusione dei metalli, alle tecniche degli esplosivi e via dicendo.

La Scienza e la Tecnica sono le vere protagoniste dell’opera, e forse quando pensiamo al naturalismo francese e al suo manifesto, il saggio di Zola Il Romanzo sperimentale (1880), dovremmo ricordare che alle sue spalle non vi è soltanto il Positivismo ottocentesco ma anche le bizzarre avventure degli eroi di Verne che prendono sul serio la Scienza e la Tecnica e le affidano un ruolo da  protagoniste sulla scena letteraria.

 

Jules Verne, VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI 1870

 I primi semi della fantascienza vanno cercati nella letteratura dell’800. Pioniera assoluta Mary Shelley con il suo Frankenstein (1818) ma poi il genere diventa veramente letteratura di massa per merito di Jules Verne a partire almeno da Cinque settimane in pallone (1863),  e poi Dalla terra alla luna (1865) e poi Ventimila leghe sotto i mari (1870). Non nascondo che quest’ultimo romanzo (insieme a Il giro del mondo in 80 giorni) ha sempre suscito la mia attenzione, fin da quando, ragazzo, lo lessi per la prima volta. Allora probabilmente apprezzavo soprattutto le avventure in terre lontane, i viaggi fantastici, quella curiosità incontenibile che porta Verne  a diventare scrittore non localistico, ma attratto dal mondo, dai luoghi sconosciuti, dalle avventure impossibili. Oggi, dopo molte letture e qualche riflessione, trovo che Verne sia un autore ingiustamente relegato nella letteratura per ragazzi, e invece meno banale e meno superficiale di quel che talvolta si pensi, le sue non sono solo divertenti avventure, c’è qualcosa di più. Innanzi tutto c’è il fatto che egli insieme a pochi altri inaugura un genere che oggi ci appare così significativo ed emblematico del nostro tempo, la fantascienza. Per questo motivo mi riprometto di farne un po’ alla volta una lettura articolata per Leggere Distopico.

E non posso iniziare se non da Ventimila leghe sotto i mari. Chi ha letto Moby Dick (che è del 1851, quindi precedente, ma è stato tradotto in francese per la prima volta solo nel 1941 da Jean Giono e dunque non sappiamo se Verne ne avesse conoscenza), vi ritroverà lo stesso piacere nel descrivere minuziosamente gli ambienti marini, i pesci, le piante, la  vita dei balenieri. Anche a costo di inserire nella narrazione lunghi elenchi non certo appassionanti, ma Verne non sta solo raccontando una storia, sta descrivendo un mondo. La trama in sé, infatti, è piuttosto semplice.

 

Un essere sconosciuto imperversa per gli oceani mentendo a rischio i vascelli e le baleniere. Uno scienziato viene incaricato a bordo di un Vascello di inseguire l’animale e magari catturarlo. Tuttavia è l’animale che inseguito si rivolta contro il vascello e l’affonda, lo scienziato e altri due vengono raccolti come naufraghi proprio dal mostro che si scopre essere non un animale ma un mezzo  sottomarino, macchina del tutto sconosciuta e avveniristica, il Nautilus,  del misterioso ammiraglio Nemo. 

Trascinato controvoglia a esplorare tutti i mari del mondo, alla fine i tre riescono a fuggire e il Nautilus scompare, ma non sappiamo se affondi  o meno, in un vortice di correnti.

 

Ma che cos’è il Nautilus e chi è il comandante Nemo? Il Nautilus è, insieme, un gioiello tecnologico d’avanguardia e un palazzo principesco, colmo di opere d’arte, di una ricchissima biblioteca, di oggetti preziosi, c’è persino un organo che il capitano Nemo ama suonare in solitudine. Il mezzo meccanico sfrutta la grande novità del XIX secolo, che è all’origine di molta letteratura fantascientifica di questo secolo, l’elettricità, ma anticipa anche molte soluzioni moderne sia nelle modalità di spostamento del mezzo, sia nella pratica subacquea. Ma il Nuautilus è anche un luogo di isolamento assoluto dal mondo e dagli uomini. I marinai sembrano aver fatto il voto del silenzio, sono parte della macchina, non membri di una comunità.

Quanto al comandante Nemo, non si sa esattamente chi sia. Verne lascia nel dubbio il lettore, e sappiamo dalle lettere scambiate con il suo editore che in fase di scrittura pensava a varie soluzioni. Sappiamo soltanto che Nemo combatte una sua guerra personale della quale, alla fine, non veniamo mai a conoscere i motivi. Possiamo al più intuire che vi sia alle spalle un dramma familiare che giustificherebbe forse quell’incontenibile desiderio di vendetta che lo porta ad affondare le navi, insensibile al destino di tanti poveri marinai. Sappiamo che nel suo vascello museo c’è una parete dedicata ai grandi eroi romantici della liberazione (della Polonia, della Grecia, dell’Irlanda, dell’Unione Americana, c’è anche Daniele Manin eroe della rivoluzione del ’48 a Venezia e John Brown epico eroe dell’emancipazione dei neri). È fra questi eroi che Nemo forse pensa di potersi guadagnare un posto. Egli è un solitario disperato in lotta contro il mondo. L’arrivo  dei tre naufraghi muta solo in parte la sua condizione: Pierre Aronnax, lo scienziato, perfetto esemplare di quella borghesia imperialistica inglese che domina il mondo e che non può vivere senza un fedele servitore, il domestico Conseil e poi il rude popolano canadese Ned Land a rappresentare l’altra parte della società.

Aronnax è anche la voce narrante del romanzo, colui che funge da mediatore, per noi lettori, tra il possibile e l’impossibile, la credibilità e l’assurdità, il reale e il fantastico.

Tutto il gioco narrativo sta in questo lungo peregrinare  in un altro mondo, che pare addirittura un altro pianeta. Il mondo sottomarino capace di fornire cibo, energia, ricchezza, e stupore. Il rifiuto del mondo reale e della società costituita si ribalta nella descrizione di un altro mondo possibile, straordinario e stupefacente, ma destinato a un uomo solo, colui che ha il possesso della macchina. La tecnica costituisce la premessa necessaria per dominare un altro mondo e un’altra vita, migliore, più semplice, meno conflittuale, dove il cacciatore domina le sue prede ma deve altresì difendersi da mostri, creature straordinarie, ambienti ostili. Un  imperialismo senza umanità.

 

Jules Verne  I 500 MILIONI DELLA BEGUN  1879

  Avventura, utopia, distopia, responsabilità della tecnica, militarismo, guerra, ci sono tanti temi importanti in questo piccolo capolavoro di Jules Verne. Rileggerlo oggi può essere davvero istruttivo.

I 500 milioni della Bégum è un romanzo di Jules Verne pubblicato nel 1879. Il libro racconta la storia di due uomini, il dott. Sarrasin, francese ed Herr Shultze, tedesco, che ricevono una grande eredità da una lontana parente indiana, una principessa, appunto la Begum. Ma i due uomini fanno un uso diverso e opposto dell’immane e imprevista ricchezza: il primo utilizza la sua quota per costruire una città ideale, mentre l’altro costruisce una città-industria organizzata militarmente dove progetta, produce e vende armi d’avanguardia.

Nel frattempo, un giovane ingegnere si fa assumere nella città-industria dove scala per anni la catena gerarchica che lo porterà al sancta sanctorum del suo capo. Il giovane è in realtà un alleato dell’uomo che ha costruito la città ideale e riuscirà a scoprire i piani del suo capo. Pur senza venire scoperto, il giovane verrà condannato a morte dal capriccioso capo che gli aveva mostrato i suoi più terribili ordigni segreti: un supercannone dalla lunghissima gittata (sufficiente a bombardare la città ideale), proiettili incendiari e proiettili a diffusione di gas. Tuttavia, il giovane riesce a sfruttare la fiducia che il capo continua a nutrire in lui e a fuggire dalla città-industria; ma tutto il lavoro eroico del giovane e quello dei suoi amici risulterebbe inutile se il supercannone pronto a bombardare la città ideale non fosse paradossalmente troppo potente: il primo proiettile sarà letteralmente scagliato in orbita attorno alla terra, danneggiando allo stesso tempo il cannone. Il romanzo si conclude con la morte di Herr Schultze asfissiato e congelato dall’esplosione di uno dei suoi innovativi proiettili a gas.   

 C’è, molto evidente, nel romanzo il risentimento del francese nei confronti dei tedeschi dopo la sconfitta del 1870, ma c’è anche la consapevolezza dello scrittore affascinato dalla scienza e al contempo conscio della piega drammatica presa dalla società capitalistica del XIX secolo.

Le due città ideali, insieme esempio di utopia e di distopia sorgono negli Stati Uniti, evidentemente il territorio più dinamico, quello che ha ancora in sé una vitalità, una capacità di sviluppo che in Europa languono.

Nel primo caso però, la città ideale chiamata Città Francia, realizza un sogno di armonia e di coesistenza tra classi che sembra richiamare le speranze di un socialismo riformista molto blando, e che ha nelle prescrizioni igieniche il suo fondamento: ciò che conta è che le case siano salubri. Dall’altra parte la città distopica è la Città dell’Acciaio, una immensa officina interamente votata alla costruzione di armi, le più potenti, le più sofisticate, destinate per lo più a stati europei, la Germania in primo luogo. E qui  sono in vigore le forme più estreme di sfruttamento e di autoritarismo. Degenerazione del sogno prometeico, perversione dell’industrialismo verso la fabbrica alienante del XX secolo.

Va osservato però che nella guerra tra le due città, un ruolo particolare lo riveste il mondo finanziario, la Città dell’Acciaio infatti sarà sconfitta  non da un atto di guerra ma dal fallimento economico e conseguente crollo delle azioni in Borsa. Verne intuisce bene come il futuro dipenderà sempre più dalla grande finanza e dalle sue oscure regole.

 

 

Jules Verne, IL PADRONE DEL MONDO  1904

 Il padrone del mondo è uno degli ultimi romanzi di Jules Verne. Pubblicato nel 1904, va considerato come il seguito di Robur il conquistatore di qualche anno precedente (1886). Torna oggi in libreria in una bella edizione illustrata a cura della giovanissima editrice Black Dog di Savona che ripropone la versione originale italiana del 1906 dopo aver ripulito opportunamente la traduzione che appare così limpida e altamente leggibile pur conservando un certo piacevole sapore d’antico.

 Protagonista è l’investigatore John Strock il quale è chiamato a far luce su una serie di eventi misteriosi: una montagna che si illumina come fosse un vulcano, un mezzo misterioso che viaggia sul mare e sulla terra a velocità mai viste prima, un mezzo che sembra in grado di viaggiare velocissimo sott’acqua.

Inizialmente Strock non riesce nell’intento ma poi mettendo insieme gli eventi ci si rende conto che si tratta sempre dello stesso mezzo.

Riuscirà ad appartarsi e a sorprendere  il misterioso equipaggio, ma per una sfortunata casualità si troverà prigioniero nel mezzo stesso comandato, scopre, da Robur il conquistatore che si proclama Padrone Del Mondo e rifiuta di condividere la sua invenzione anche rinunciando a favolose offerte di denaro.

Il finale è drammatico: dapprima Strock è costretto suo malgrado a viaggiare a bordo dello Spavento, che è appunto questo mezzo straordinario, mosso da motori elettrici e in grado di viaggiare indifferentemente sull’acqua e sotto l’acqua, sulla terra e perfino nel cielo.

Ma Robur travolto da una sorta di delirio di onnipotenza, affronta una terribile tempesta che finirà per  distruggere il mezzo e porrà fine alla sua vita.

Strock si salva e può dunque raccontare tutta questa storia.

 Per chi conosca un po’ Verne è facile riconoscere in queste pagine l’orgoglio positivista che ha sempre ispirato le sue opere. L’esaltazione della scienza che può aspirare a superare ogni ostacolo e andare oltre ogni limite umano spinta dal mito della elettricità che per tutto il XIX secolo è apparso come l’energia prometeica in grado di rimodellare il futuro.

Tuttavia, in quest’opera, e forse diversamente da quanto accade per esempio in 20.000 leghe sotto i mari e nel precedente Robur il conquistatore, la figura del pacato e razionale Strock serve anche a mettere in evidenza il punto di non ritorno di un atteggiamento superomistico che rischia la follia e l’isolamento.

Forse anche edotto dalle opere coeve di Wells ( non a caso uno dei personaggi del romanzo porta proprio questo nome), Verne dopo una vita di esaltazione incondizionata, coglie infine anche il pericolo contenuto nel lasciare libero corso alla creazione scientifica e tecnica.

Perché se è vero che scientia est potentia è anche vero che la potenza – che la tecnica moderna vorrebbe fosse solo costruttiva – può diventare anche distruttiva e mettere in pericolo lo stesso creatore. 

 

 Jules Verne, L’ETERNO ADAMO  1910

Pubblicato postumo nel 1910 è un racconto scritto negli ultimi anni di vita di Verne e rimaneggiato dal figlio Michel. Lo leggo in una deliziosa edizione mignon dell’editore napoletano Coppola.

 Sofr il Sapiente in un fantastico impero d’Oriente dopo aver elogiato i grandi progressi della civiltà nel campo delle invenzioni ma anche della conoscenza sente la necessità di chiarire l’ultimo mistero, quello della origine dell’uomo e della meta del suo cammino. Il Sapiente per trovare la risposta a queste domande supreme avvia delle ricerche nel campo dei fossili che lo portano a sostenere come falsa e insostenibile la tesi popolare di una umanità creata da una volontà superiore: Adamo ed Eva. Durante gli scavi trova un manoscritto in una lingua sconosciuta. Riesce a decifrarlo: è il diario di un ricco francese vissuto molto tempo prima il quale racconta di quando giunse il cataclisma che fece sprofondare il Messico nel mare. Ed egli si trovò, in compagnia di pochi amici, in un isolotto circondato dal mare.

Raccolti da una nave poco prima che l’isolotto a sua volta scompaia scoprono che il continente americano ha subito la stessa sorte del Messico. Spinti dal vento per otto mesi cominciano a cadere nella disperazione: non ci sono più terre emerse, tutto il pianeta è coperto dal mare e non ci sono altri sopravvissuti. Ma i viveri a bordo della nave scarseggiano. La fine anche per loro è ormai vicina quando trovano la sola terra emersa in mezzo all’Atlantico. Qui possono rifocillarsi di tartarughe e molluschi ma l’isola è totalmente arida: non ci sono piante, nemmeno un filo d’erba perché si tratta di una terra emersa dal fondo dell’oceano  a causa del cataclisma, una specie di Atlantide al contrario. Qui restano e cominciano a ricreare la vita attraverso un processo di “terraformazione”. E pensano a quel che potrà essere il mondo futuro.

“Mi sembra di vederli questi uomini del futuro, dimentichi del linguaggio articolato, l’intelligenza spenta, il corpo ricoperto da peli ruvidi, errare in questo deserto.” (p. 98)

Per evitare questo pericolo di involuzione della specie umana il narratore dedicherà gli ultimi anni della sua vita a mettere su carta tutte le sue conoscenze per la società del futuro.

È dunque vero che è esistita un’umanità civilizzata prima di quella precedente, che in qualche modo è sopravvissuta all’estinzione. Questo è il Destino “dell’eterno ricominciare delle cose” (105).

Non sappiamo quanto del  racconto sia realmente ascrivibile a Jules Verne piuttosto che al figlio, di certo però qui l’ottimismo positivista tipico di Verne è superato attraverso questa immaginazione di una ciclica rovina dell’umanità. Ormai nel ‘900 l’ideale ottocentesco delle umane sorti e progressive, il processo lineare di sviluppo della civiltà umana, la macchina inesorabile del progresso, è solo un lontano ricordo.

 

Jules Verne PARIGI NEL XX SECOLO 1863

È un romanzo distopico, una ucronia semplice ma efficace, forse non è l’opera migliore di Verne ma sicuramente una lettura che prende, soprattutto se conoscete un po’ Parigi.
Il romanzo stesso ha una storia interessante, scritto nel 1863 quindi dopo il grande successo di Cinque settimane in pallone che ha presentato Verne al pubblico come un eccellente scrittore di avventure, il suo editore e mentore Pierre-Jules Hetzel si rifiuta di pubblicarlo perché troppo lontano dall’immagine di scrittore leggero che Verne si stava costruendo. Gli consiglia di aspettare almeno vent’anni prima di darlo alle stampe. Così Verne chiude il manoscritto in una cassaforte e se ne dimentica.
Quasi un secolo dopo la sua morte il nipote ritrova casualmente la chiave di quella cassaforte e ne trae il manoscritto che viene pubblicato in Francia solo nel 1994.

Ciò che emerge immediatamente dal romanzo è la forza critica che traspare dalla descrizione della Parigi del XX secolo. Siamo dunque in un futuro che per noi è già passato, il 1960, il protagonista Michel Jéròme Dufrénoy, un giovane che coltiva il sogno di diventare poeta, vede tute le sua speranze frustrate perché ormai la società è interamente votata all’economia, all’industria, al denaro.
Le opere dei grandi autori del passato sono ormai introvabili, l’arte in generale è diventata inutile, oppure, come nel caso del teatro, si è trasformata in una istituzione pubblica anch’essa di impianto industriale. La musica è inascoltabile, e qui Verne sembra descrivere la dodecafonia con ampio anticipo sulla realtà, l’arte è concettuale, i costumi sono decaduti, le donne mascolinizzate. Dominano le macchine, Verne preconizza strumenti automatici per far di conto, comunicazioni a distanza, automobili a gas, metropolitane sospese. Un vero trionfo delle tecnica.
 Ma la miseria è sempre alle porte, il poeta non riesce a far pubblicare la sua opera, la ragazza di cui è innamorata scompare perché sfrattata dal suo appartamento.
Lunghe descrizioni di una Parigi che ha conservato l’aspetto ottocentesco ma introducendovi elementi nuovi, accompagnano il lettore tra strade dominate dall’elettricità.
Michel, il protagonista, appare incapace di adattarsi ai tempi. Fallisce nel lavoro presso la banca Casmodage, qui viene assegnato alla contabilità generale, dove familiarizza con il contabile, il signor Quinsonnas che ha le stesse inquietudini  di Michel. Questi gli confessa di lavorare a un misterioso progetto musicale che dovrebbe portargli fama e fortuna. I due fanno visita allo zio Huguenin, al quale si aggiungono l'ex insegnante di Michel, il signor Richelot, e la sua giovane nipote, Lucy della quale Michel si innamora all’istante.
Al termine del 1961, l'Europa entra in un inverno senza precedenti. Tutta l'agricoltura è colpita e le scorte alimentari distrutte, con conseguente carestia diffusa. La temperatura scende di trenta gradi e tutti i fiumi d'Europa si ghiacciano. Disperato, Michel spende i pochi soldi che gli sono rimasti per comprare a Lucy delle violette, solo per scoprire che la ragazza è scomparsa dal suo appartamento, sfrattata quando suo nonno ha perso il lavoro come ultimo professore di retorica dell'università. Non riesce a trovarla tra le migliaia di persone affamate di Parigi. Passa l'intera serata a vagare come un pazzo per la città. Michel è convinto di essere perseguitato dal demone dell'elettricità, al quale non riesce a sfuggire.
Alla fine della storia, Michel, disperato, vaga tra le meraviglie elettriche, meccanizzate e ghiacciate di Parigi. Fino a che al culmine della disperazione, il giovane si ritrova inconsapevolmente in un vecchio cimitero dove, in stato comatoso, crolla nella neve.

Anche se i personaggi non sono particolarmente sviluppati, e la storia appare un po’ inconclusa, resta il fatto che Parigi nel XX secolo si mostra come un esempio interessante di una proiezione verso il futuro che ha in sé come nelle migliori distopie un elemento critico rispetto al presente dello scrittore. E soprattutto credo sia importante per il lettore di oggi sapere che l’autore di opere come Viaggio al centro della Terra (1864), Dalla Terra alla Luna (1865) o Ventimila leghe sotto i mari (1869), aveva già scritto, anche se non pubblicato, una delle più drammatiche previsioni intorno al XX secolo.
 

 

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